L'Italia non sa piu' fare "squadra"

Inserito il 11 marzo 2009 18:57 da Redazione editoriale in Editoriali

Cantava Edoardo Bennato, parlando del suo Paese, «Anno quarantatre della Repubblica / età industriale, quinta potenza al mondo».
Era la fine degli Ottanta, della guerra fredda, del comunismo e del muro di Berlino. C’era una volta l’Italia che trainava il mondo. Nell’economia, nel progresso scientifico, nell’arte diplomatica della politica. E non solo. C’era anche l’Italia potenza dello sport, quinta forza olimpica, grande in particolare nelle discipline di squadra. La Nazionale di calcio che vinceva il Mondiale ’82 in Spagna, Meneghin e compagni che a canestro conquistavano medaglie a ripetizione fra Olimpiadi ed Europei, la squadra di Davis capace di trionfare nel 1976 in Cile e di restare ad alti livelli per altri vent’anni. Sempre alla fine dei meravigliosi anni Ottanta, sbarcò pure un signore di nome Julio Velasco che trainò l’Italvolley a vette inesplorate, sino in cima al mondo.

C’era una volta un tempo in cui Italia faceva rima con squadra, e squadra con vittoria. Perché a oggi, nel 2009, di questo spirito vincente non è rimasto quasi nulla. Pare che l’Italia stia regredendo non solo nel Pil, nel tasso di occupazione o a livello culturale, ma persino nello sport!
Non ce ne vogliano i reduci di Berlino che tre anni fa alzarono la Coppa del mondo. È questa, per quanto grandissima, l’unica gioia raccolta di recente dagli Azzurri negli sport di squadra. Un po’ pochino, e in prospettiva la situazione non è delle più rosee.
Il ciclo vincente di Lippi sembra difficilmente allungabile sino a SudAfrica 2010, per la difficoltà di plasmare un nuovo gruppo in cui far coesistere vecchi e nuovi, per la forza degli avversari, da Brasile ad Argentina; una riprova si è avuta poche settimane fa nell’amichevole di Londra, quando i verdeoro di Adriano e Ronaldinho ci hanno demolito. E poi, diciamolo, fuori dall’Europa le squadre del Vecchio continente hanno sempre fatto fatica; anzi, la storia vuole che non abbiano mai vinto.

La pallacanestro è forse il settore più in disgrazia, con i giocatori che rifiutano la maglia azzurra, la federazione commissariata prima dell’elezione “bulgara” di Meneghin, ingaggi di stranieri a getto continuo che rendono il campionato poco credibile. Lo stesso dicasi della pallavolo, dove dopo l’oro all’Europeo del 2005 è in atto un difficile ricambio generazionale, che ci costringerà ad attendere a lungo prima del ritorno ad alti livelli.
L’entusiasmo che una volta sollevavano basket e volley, negli ultimi anni si ritrova negli stadi del rugby: agli italiani piace, c’è un clima diverso, lontano dalle tensioni del calcio e affini, trionfano sempre la sportività e l’amicizia dopo il match. Ok, tutto meraviglioso, ma la nostra nazionale che fa? Esce in malo modo da un Mondiale contro una battibile Scozia, rimedia figuracce e quasi inevitabilmente l’ennesimo “cucchiaio di legno” nel Sei Nazioni, che si chiama così proprio perché – generosa, questa gente del rugby – dieci anni fa ci fecero spazio fra le grandi del Vecchio continente.

Resta il tennis, che non è e mai sarà uno sport di squadra, ma vanta una splendida competizione come la Coppa Davis, che dall’epoca di Panatta, Bertolucci, Barazzutti e Zugarelli riscuote un buon seguito tra gli appassionati. Bene, nello scorso week end l’attenzione di tutti si è spostata a Cagliari per seguire gli Azzurri, dal biondo Andreas Seppi al rampante Fabio Fognini, con l’esperto Potito Starace e il generoso Flavio Cipolla, impegnati contro una Slovacchia in declino. Abbiamo vinto da favoriti, là dove Cagliari evocava le immagini di una storica vittoria sulla Svezia di Wilander. Ah, dimenticavamo: si è trattato del turno preliminare di Serie B per andare a disputare – dopo tre anni di assenza – l’eventuale spareggio promozione, e giusto per non farci mancare niente, sono arrivate le solite polemiche su compensi, stimoli e rapporti tesi con la Federazione.
C’era una volta l’Italia “quinta potenza al mondo”.

Stefano Bolotta

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