I ricorrenti processi al tennis Italiano. Luoghi comuni e veri problemi

Inserito il 3 giugno 2008 23:30 da Redazione editoriale in Editoriali
Un'attenta analisi del nostro Roberto, che indaga sui veri problemi e non del tennis nostrano

TennisTeen - Image (Giacomo Miccini)


Sono ricominciati i processi.

Domenica di mezzo del Roland Garros, e gli italiani sono tutti a casa. Effettivamente è andata molto peggio dello scorso anno, sia nel settore maschile (dove registrammo il quarto turno di Filippo Volandri), sia in quello femminile (cocente la delusione per la sconfitta di Flavia contro la giovane Suarez Navarro, venuta dopo l’exploit su Venus Williams), sia tra gli juniores (dove lo scorso anno piazzammo Trevisan in semi, con due match ball a favore).

Non voglio però rubare il mestiere all’ottimo Diego, che presenta sempre nei suoi pezzi un bilancio accuratissimo, e mi limiterò a discutere con voi se, davvero, esistano in Italia delle debolezze strutturali, che ci impediscono di produrre dei campioni nel tennis, a differenza di quanto riusciamo a fare in molte altre discipline. Passeremo ora in rassegna un paio di luoghi comuni, che come sempre accade contengono un fondo di verità, cercando però di capire se dietro non ci sia, a guardar bene, anche qualcos’altro.

Gli italiani maturano tardi perché sono mammoni e le famiglie sono iperprotettive. Negli ultimi giorni Nick Bollettieri, dopo la sconfitta di Giacomo Miccini al primo turno del torneo juniores di Parigi contro il francese Inzerillo (che comunque è di due anni più grande) ha dichiarato che a Giacomo occorreranno altri 2-3 anni per diventare un gran giocatore perché deve prima crescere come uomo, e inoltre che la famiglia deve smetterla di coccolarlo. La stessa IMG ha a lungo esitato prima di mettere il ragazzo sotto contratto, nonostante gli eccellenti risultati, perché laggiù si ritiene che la cultura familista italiana sia un grosso ostacolo alla crescita di un giocatore di tennis. Effettivamente, i nostri giocatori in molti casi acquisiscono piuttosto tardi la necessaria convinzione nei propri mezzi e trovano il coraggio di investire veramente nel professionismo solo quando il treno per le posizioni di vertice è ormai passato. Ma dipende solo dalle famiglie? O forse questa è solo una mezza verità, dal momento che in altri sport individuali (paragoni con quelli a squadre non se ne possono fare), altrettanto duri e stressanti, l’Italia i suoi numeri uno li produce, eccome? E’ probabile invece che altri fattori, di carattere strutturale e specifici del nostro ambiente tennistico, incidano sulla tardiva maturazione agonistica dei nostri. Da noi si dà troppa importanza al risultato, a tutti i livelli, fin da bambini, e questo va a scapito della costruzione di una solida base tecnica. I ragazzini sono troppo focalizzati sul vincere il PIA, la coppa a squadre, l’Open di Canicattì, e questo noj si concilia con la necessità di avviare un equilibrato e tempestivo lavoro a lungo termine di sviluppo tecnico. Non a caso, come ha scritto Piatti di recente, da noi i coach, su ragazzi di 17-18 anni, devono ancora effettuare dei “recuperi di tecnica” per colmare delle lacune in colpi fondamentali, anziché lavorare su tattica e atteggiamento. Inoltre, l’eccessiva attenzione al risultato, e il gioco troppo terracentrico, favoriscono l’emergere di giocatorini prudenti, magari forti mentalmente ma con uno stile di gioco anacronisticamente basato sulla regolarità, spesso con un servizio insufficiente. Giocatorini che poi a 17-18 anni si trovano a non avere un colpo vincente e, o smettono, o devono effettuare una difficile riconversione per costruirsi un gioco più aggressivo. Il risultato è che al professionismo ne arrivano pochi, e quelli che arrivano, ci arrivano più tardi degli altri, e arrivano meno lontano.

Gli italiani non hanno grinta, perciò non superano mai la prova del nove nei tornei degli Slam. Questa più che un luogo comune è una statistica. Negli ultimi 30 anni, negli Slam siamo andati proprio male. L’ultima semifinale la centrò l’attuale capitano di Davis Corrado Barazzutti, sulla terra di Parigi, nella notte dei tempi: era il 1978. Ma è per la mancanza di grinta? Il problema è che i nostri giocatori vivono in un ambiente che da un tempo lunghissimo non è abituato a vincere. Da noi non ci si pongono mai obiettivi realmente ambiziosi, si considera un enorme traguardo l’arrivare nei 100, che per gli altri è un punto di partenza. E questo perché, dopo tanti anni di batoste, a livello conscio o inconscio, fare semi in uno Slam, arrivare nei primi 10, sono obiettivi che un po’ tutti, sia dentro che fuori dall’ambiente, ritengono irraggiungibili. Alla fine, tanto, in semi, ci arriveranno gli altri, sembra dire una vocina all’interno dell’animo di ciascun appassionato, di ciascun addetto ai lavori. E così, quando uno dei nostri centra un bel risultato, ecco che subito la stampa specializzata (che da anni, come tutti noi, spera che anche il tennis riesca finalmente a guadagnare un po’ di popolarità), dà il là ad una serie di smodate celebrazioni, con paragoni ad effetto (Bolelli, il nostro Federer…), subito i tifosi iniziano a far volare la fantasia, per troppo tempo repressa, e allora la pressione per il malcapitato protagonista dell’impresa sale a livelli insostenibili, per gente che sulle prime pagine dei giornali non ci sta mai, come i nostri tennisti. E allora, se uno dei nostri giocatori supera due o tre turni in un torneo dello Slam, finisce per provare le stesse sensazioni che devono aver provato i marinai di Cristoforo Colombo. Gli sembra di essersi avventurato in una landa inesplorata, e presto la mente si popola di angosce e timori. Perché lì, in quei terreni di caccia, non c’è mai arrivato nessuno, dei nostri, per poter raccontare cosa significa. In più, specie se si va in campo da favoriti nel turno successivo, ci si sente come dei mendicanti ad un banchetto, penando magari ai punti che si guadagnerebbero, a quante posizioni si scalerebbero: mamma mia, quando mi ricapita più un’occasione simile in uno Slam? Ed è la fine, il braccio si blocca, si sbagliano le palle più semplici. Sono ancora una volta gli altri che vanno avanti, i francesi, gli spagnoli, quelli dei paesi abituati a vincere, anche se magari non sono dei campioni. Perché, loro, anche se sono giovanissimi, procedono su una strada conosciuta, la lanterna ben alta in una mano, la mappa dettagliata e precisa nell’altra, e distinguono, sul terreno, nitide e rassicuranti, le orme lasciate dai loro connazionali, che su quel cammino li hanno preceduti.

Avrà mai fine tutto questo? Forse il nostro sistema tennis per rilanciarsi davvero, e rompere questa spirale, ha bisogno di un evento “esterno”, e del tutto casuale. Occorre non solo che un italiano nasca con un grande talento, ma che venga allevato, allenato e costruito ben lontano dal nostro ambiente. In modo da non percepire tutti i condizionamenti negativi di cui parlavo sopra. Insomma, per vincere, bisogna stare a fianco, tutti i giorni, di chi è abituato a vincere.

Roberto Commentucci

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