Stretta di mano finale, il tennis fa il break sul calcio
Inserito il 14 febbraio 2008 23:06 da Matteo Rinaldi in Editoriali
Al via una nuova rubrica di TennisTeen, "Cambio Campo", curata da Stefano Bolotta che ci darà una visione più globale del tennis, accostandolo ad altre discipline. L’Italia dei processi sommari, delle tempeste mediatiche, delle vittime designate, ha colpito ancora. E come sempre, l’argomento di discussione è il tanto amato calcio. Il “terzo tempo” introdotto di recente per seminare la cultura della sportività in un mondo avvelenato da violenza fisica e verbale che troppe volte la disconosce, si sta rivelando un clamoroso flop.
Basta un fallo un po’ più duro del previsto a fare incendiare gli animi, rendendo il rito finale della stretta di mano un fattore di pubblica sicurezza. Gli arbitri preferiscono evitarlo, alcune squadre non lo vogliono, interpretandolo giustamente come una forzatura. Per non parlare di quando il risultato acquisisce i connotati di una batosta. Un problema che, a breve, accadrà nel nostro campionato. Ancora, infatti, non ci siamo imbattuti nei cosiddetti “punteggi tennistici”, cioè quando l’avversario viene disintegrato concedendogli pochissime chance. Per il tennis è quasi la normalità, si tratta di risultati molto frequenti che tuttavia non impediscono ai giocatori di continuare a fare il proprio mestiere e, a fine incontro, di stringersi la mano. Non sempre sorridendo, è ovvio, ma quantomeno in modo rispettoso.
Ma cosa succederebbe se l’Inter, tanto per fare un esempio, rifilasse un sonante 6-0 alla malcapitata piccola squadra di turno, o ancora peggio a Juve o Milan? Basti ricordare che, negli ultimi dieci anni, questi risultati sono avvenuti anche fra grandi team, dal 6-1 che i bianconeri - all’epoca allenati da Marcello Lippi – inflissero ai rossoneri a San Siro nel 1997, al 6-0 pro Milan nel derby dell’11 maggio 2001. Umiliazioni totali, condite non solo dalla schiacciante vittoria ma anche da una feroce determinazione a non fermarsi mai, a non mollare una palla, anche quando l’avversario è in evidente difficoltà. Ebbene, cosa accadrebbe nel calcio saturo di oggi, annus domini 2008? I giocatori andrebbero tranquillamente al centro del campo, scortati dalla quaterna arbitrale, per stringersi la mano e salutarsi affettuosamente? Abbiamo qualche dubbio. Citiamo un altro esempio, ancora fresco nella memoria: il match Roma-Catania dello scorso campionato, disputato all’Olimpico e terminato con un più che tennistico 7-0 a favore dei giallorossi. Al fischio finale, le polemiche iniziarono in campo e proseguirono nel tunnel verso lo spogliatoio, quando Luciano Spalletti, allenatore della Roma, si fermò per aspettare gli avversari e stringere loro la mano con aria mesta, quasi a volersi scusare di un responso troppo duro ma inevitabile. Già, inevitabile. Perché in fondo lo spirito che anima lo sport, in barba a quanto ne pensasse De Coubertin, non è solo partecipare ma soprattutto vincere. Lo sport tutto poggia le sue basi sull’agonismo e sulla voglia di prevalere, certo con metodi corretti, sugli antagonisti. In Italia, purtroppo, la cultura del rispetto verso lo sconfitto non è ancora stata maturata appieno come in altri Paesi, e paradossalmente nemmeno quella nei confronti dei vincitori-tiranni. Chi vince sempre, del resto, da noi è ritenuto antipatico e non abbiamo bisogno di citare altri esempi a supporto di questa tesi. Eppure, è la semplice trasposizione sul campo di una superiorità tecnica.
Il “terzo tempo”, come viene forzatamente chiamato nel calcio, non è altro che un gesto di cordialità a contesa terminata, mentre il complesso mondo del pallone riesce a farlo passare come una regola da applicare, pena sanzioni nei confronti dell’arbitro piuttosto che della società ospitante. Nei primi tre mesi di sperimentazione, sono quasi più numerose le occasioni in cui si è preferito evitarlo. Tutto ciò in altri sport non avviene. Nel rugby il terzo tempo è una tradizione molto radicata fra gli atleti, che lo fanno direttamente al ristorante o in trattoria, con un fumante piatto (o due, tre o quattro…) di spaghetti e litri di birra. Culture diverse. Pensiamo allora al basket e al volley, dove il rito è collaudato grazie a un “gimme five” di scuola prettamente americana. E veniamo infine al tennis.
La cordialità nella nostra amata disciplina è parallela all’eleganza dei gesti tecnici stampati sui libri. Al “game, set, match” chiamato dal giudice di sedia ci si avvicina a rete e ci si stringe la mano, prima di salutare l’arbitro e infine il pubblico, che applaude anche lo sconfitto prima che questi rientri negli spogliatoi. Nel calcio tutto questo è ancora lontano. Non è un meccanismo spontaneo, è solo un’imposizione. E per questo non funziona. Si dirà che è colpa del business, ma replichiamo dicendo che anche i tennisti, ad alto livello, guadagnano cifre astronomiche. Questo, però, non inasprisce i loro atteggiamenti né quello del loro clan o dei tifosi (con qualche rarissima eccezione). Si dirà: ma il calcio, la Serie A, alcuni big-match, sono eventi importantissimi. Perché una finale a Wimbledon vinta 6-1 6-2 6-1 non sarebbe ugualmente rilevante, anzi forse molto di più?
Si potrebbe scommettere, comunque, sull’epilogo di una partita simile: i due tennisti che si avvicinano al net, si stringono la mano, un buffetto sulla spalla, con un dialogo verosimile: “Complimenti, oggi sei stato troppo forte”. “Grazie, è andata bene. Ci rivediamo il prossimo anno in finale”. E allora il tennis, sul calcio, è avanti almeno di un break.
Stefano Bolotta